Cito un'articolo apparso in esclusiva su Famiglia Cristiana in cui Ban Ki-moon, il segratario generale dell'ONU preannuncia l'invio di 26.000 caschi blu. Parla di questo popolo in modo da farci capire che non sono tanto diversi da noi,anzi che non lo sono per niente, al contrario di come crediamo.
Si parla spesso e con leggerezza del Darfur. Ma cosa si può dire con certezza di questa regione? In parole semplici, si tratta di una società in guerra con sé stessa. I ribelli combattono contro il Governo e il Governo combatte contro i ribelli. Eppure la realtà è molto più complicata di quello che potrebbe sembrare e spesso non è facile definire chiaramente quali sono le parti che si fronteggiano. Ultimamente, ad esempio, i combattimenti contrappongono assai di frequente tribù contro tribù, signori della guerra contro signori della guerra.
Ormai non è più possibile delimitare al solo Darfur una crisi che si è invece estesa oltre le frontiere del Sudan, destabilizzando l’intera regione. Il Darfur è afflitto anche da un’emergenza ambientale: un conflitto che si è sviluppato almeno in parte a causa della desertificazione, del degrado ecologico e della carenza di risorse, soprattutto per quanto riguarda l’approvvigionamento di acqua.
Sono rientrato da poco da una missione di una settimana in Darfur e nella regione circostante. Sono andato là per ascoltare le schiette opinioni della popolazione, dei funzionari del Governo sudanese, degli abitanti dei villaggi sfollati a causa dei combattimenti, degli operatori umanitari, dei governanti dei Paesi limitrofi. Sono rientrato con una visione più chiara della situazione. Non può esserci un’unica soluzione alla crisi. Il Darfur è un caso da studiare nella sua complessità. Se vogliamo costruire la pace, dobbiamo tenere in considerazione tutti gli elementi che hanno portato al conflitto.
Tutto quello che ho visto e sentito mi ha convinto che questo progetto è realizzabile, quindi dobbiamo riuscirci. Fuori da El Fasher, la più grande città del Nord del Darfur, ho visitato il campo di El Salam, che accoglie circa 45.000 sfollati. Ho percepito la loro disperazione, la loro frustrazione. Ho visto bambini che non sanno cosa sia la vita fuori dai campi. Volevo dare loro un segnale e per questo ho promesso che faremo tutto quanto in nostro potere per portare la pace e aiutarli a ritornare nei loro villaggi.
Abbiamo fatto un primo passo positivo in questa direzione. Il Consiglio di sicurezza ha autorizzato il dispiegamento di 26.000 operatori di pace provenienti da diverse nazioni, sotto l’egida congiunta di Onu e Unione africana. Andando in Darfur, ho constatato le difficili condizioni nelle quali le nostre forze sono costrette a lavorare, verificando anche lo stato dei preparativi logistici per la missione.
Nessuna missione di pace può avere successo se non esiste una pace da mantenere. Dobbiamo allora esercitare la maggiore pressione possibile affinché si trovi un accordo anche a livello politico. È stato questo il principale obiettivo del mio viaggio.
L’impegno di Khartoum
A Khartoum, il Governo del presidente Omar al-Bashir ha rinnovato il suo impegno a sostegno sia della missione di pace sia dei negoziati aperti a tutte le parti in causa. D’accordo con lui, abbiamo deciso che questi incontri cominceranno in Libia il 27 ottobre sotto la direzione congiunta di Nazioni Unite e Unione africana. Il Governo ha inoltre confermato l’impegno a favore della cessazione immediata delle ostilità, come del resto avevano fatto il mese scorso ad Arusha i gruppi ribelli. Tuttavia, solo poche ore dopo la mia visita si sono diffusi resoconti di tensioni, scontri e bombardamenti nella città di Haskanita, nel Darfur settentrionale. È quindi importante che entrambe le parti si disciplinino, creando nel contempo le condizioni appropriate per l’avvio dei colloqui di pace.
Per comprendere la situazione del Darfur dobbiamo guardare oltre. A Juba, la capitale del Sudan meridionale, i leader politici temono che l’emergenza in Darfur distolga l’attenzione dall’accordo di pace sottoscritto due anni fa per porre fine a una lunga guerra civile. Pur occupandoci del Darfur, non dobbiamo però trascurare i fragili equilibri locali, nel timore che un conflitto più ampio scoppi nuovamente e comprometta tutti i nostri sforzi.
Per essere durevole, qualsiasi pace deve avere radici profonde. A Juba e a El Fasher, ho compreso l’importanza di prestare attenzione alle voci che si levano da ampi settori della società civile locale: capi tribali, rappresentanti dei movimenti politici indipendenti, gruppi di donne e di rifugiati, funzionari del Governo locale e nazionale. C’è bisogno di una sorta di "contratto sociale" per la pace.
Quando l’ho incontrato nella sua tenda a Sirte, il leader libico, il colonnello Muammar Gheddafi, si è generosamente offerto di ospitare i colloqui di pace, garantendomi di fare quanto in suo potere per far sì che il dialogo dia i risultati sperati. «Ora o mai più», ha detto Gheddafi, enfatizzando l’opinione diffusa che questi negoziati debbano essere definitivi.
Durante la visita, Gheddafi mi ha mostrato il grande fiume costruito dall’uomo, centinaia di chilometri di condutture che convogliano milioni di litri di acqua dal cuore del deserto del Sahara: uno spettacolo sorprendente in una regione in cui le risorse idriche sono così scarse. Il giorno prima, sorvolando il lago Ciad – un vasto mare interno che si è ridotto di dieci volte rispetto alle dimensioni originarie – mi ero reso conto con chiarezza di come il futuro di questa regione dipenda dall’acqua.
Una sfida ardua, non impossibile
A N’Djamena, il presidente del Ciad Idriss Deby mi ha fatto notare che senza acqua non ci può essere sviluppo economico. «Senza una prospettiva di progresso economico», mi ha detto, «i 250.000 rifugiati del Darfur, che vivono nella parte orientale del mio Paese, non potranno rientrare in patria. Sicurezza e sviluppo vanno di pari passo, ed è in questo contesto che la comunità internazionale può svolgere un ruolo importante».
Tutto questo sottolinea la necessità di un approccio globale al conflitto in Darfur. Le soluzioni non possono essere di piccolo cabotaggio. Il peggioramento della crisi è imputabile a numerose cause, ed è con ciascuna di esse che dobbiamo fare i conti: sicurezza, politica, risorse, acqua, questioni umanitarie e di sviluppo. Confrontarsi con la complessità rende il nostro lavoro una sfida più ardua. Ma è l’unica strada che possa condurre a una soluzione duratura.
Ban Ki-moon
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